martedì 25 marzo 2008

Il cinema di Yamashita Nobuhiro. Premessa.

Per un cinefilo è una grande soddisfazione scoprire e seguire in tempo reale il cammino di un cineasta di talento, magari sconosciuto ai più, magari in piena crescita creativa. Capita spesso che un regista abbia il suo periodo d’oro, cinque, dieci anni, oppure una cinquina di opere. Quanto può durare? Non è facile per il pubblico occidentale seguire in diretta l’evoluzione di molti registi giapponesi. C’è necessariamente uno scarto di tempo, in cui un autore deve farsi apprezzare in patria, e poi sperare che qualche visionatore di qualche festival lo scelga. Quindi il cinefilo occidentale lo scopre, e con fatica (al giorno d’oggi un po’ meno) va a recuperare le opere precedenti. Il tutto può durare anche qualche anno. E cosa può succedere? Può succedere che nel mentre, il regista M. abbia sparato magari tutte le sue cartucce (capita, niente di male), e che le sue cose migliori appartengano già al passato. A questo punto del percorso quindi, il nostro regista M. (ormai un nostro pupillo) è già affermato e le sue nuove opere arrivano a noi senza fatica alcuna e con tutti gli onori. Ma queste opere hanno perso la forza e la freschezza di un tempo (“Ma come? è solo un passo falso. Dopotutto A. è un capolavoro. Rimane sempre un genio.”). Stentiamo a crederci, non vogliamo ammetterlo (è il nostro pupillo) ma i suoi nuovi film sono solo la copia bolsa di quelli di pochi anni prima. Quando poi tocca il fondo, magari con K., dobbiamo svegliarci ed ammettere quello che non volevamo.
Questa premessa per dire cosa? Per dire che Yamashita Nobuhiro 山下敦弘 è il “qui e ora” nel cinema giapponese. Quanto durerà ancora non si sa, ma è meglio affrettarsi. Venezia e Cannes arrivano sempre troppo in ritardo.
つづく(*continua)

giovedì 6 marzo 2008

Il vecchio pazzo per la musica.

I viaggi solitari di Chikuzan
Chikuzan hitori tabi - 竹山ひとり旅

(tit. ing. The Life of Chikuzan)
Giappone 1977

regia di
Shindō Kaneto
新藤兼人
con Hayashi Ryūzō
林隆三 (Sadazō/Chikuzan), Otowa Nobuko 乙羽信子 (madre di Chikuzan), Baishō Mitsuko 倍賞美津子 (seconda moglie di Sadazō)
supporto
dvd (sottotitoli inglese)

La vita di Takahashi Chikuzan 高橋竹山, suonatore errante di shamisen (strumento tradizionale giapponese a tre corde); la nascita in una povera famiglia di contadini, nelle depresse e gelide aree dell’estremo nord di Honshū, l’isola principale dell’arcipelago giapponese; la parziale cecità contratta da bambino; il duro apprendistato presso un suonatore errante; l’incessante vagabondare, suonando davanti alle case in attesa di qualche soldo o cibo; l’impossibilità di una vita coniugale normale; il tutto introdotto e concluso dalle parole dello stesso Takahashi Chikuzan, ormai anziano e apprezzato maestro di Tsugaru shamisen (lo stile dell’antica regione di Tsugaru, l’attuale provincia di Aomori).

Shindō Kaneto non è nuovo a rappresentazioni quasi documentarie di vita giapponese (come in L’isola nuda - Hadaka no shima, 1960). Qui riesce a bilanciare con maestria, documentario etnologico, dramma e persino ricerca estetica. La figura di Sadazō (Chikuzan è il nome d’arte che prenderà solo in età avanzata), è quella di un pazzo per la musica, un corpo musicale che sembra non avere limiti. Un moto perpetuo che non può essere spiegato con il solo bisogno di sopravvivenza (Sadazō vive di musica in tutti i sensi), ma la cui ragione va vista nel più alto grado della ricerca artistica. E allora Sadazō è un pazzo, che si sposta incessante e quasi stolido per valli, spiagge e catapecchie. Mangia quello che riceve, dorme dove capita e viaggia con chi incontra.

In questo scritto, l’autore paragona la figura di Sadazō errante a quella di Kunisada Chūji 国定忠次, famoso eroe bandito della fine dell’epoca Edo (1615-1868) e protagonista di numerosi film, soprattutto negli anni venti e trenta. Durante il film, infatti, viene mostrato Sadazō mentre lavora in un cinema quale membro dell’orchestra accompagnatrice di un film muto. In questa scena possiamo vedere alcune immagini di un film che ha per protagonista Kunisada Chūji. L’autore sostiene che Shindō Kaneto “intentionally wished to draw a comparison between Chuji the chivalrous commoner of legend & this modern folksinger.”, e la cosa è effettivamente plausibile. Non so se sia corretto definire Chikuzan hitori tabi una sorta di matatabi eiga, ovvero quel sottogenere dei jidaigeki (film in costume, generalmente ambientati fino al 1868), che ha per protagonisti viaggiatori erranti, quasi sempre yakuza o giocatori d’azzardo. Nei matatabi eiga, il viaggio è uno sfondo, una piattaforma su cui costruire il personaggio e la narrazione, che, infatti, si svolge quasi sempre in un unico luogo. Sono ben differenti dai road movie americani, dove il muoversi fisico dei luoghi (la maestosità degli spazi americani) è spesso quasi predominante rispetto all’individuo che vi si muove all’interno. Chikuzen hitori tabi è forse più vicino all’idea occidentale di road movie, sebbene sia l’uomo, senza dubbio, ad avere la completa attenzione.

Chikuzen hitori tabi è un film di piedi, piedi senza paura, sprofondati nel fango e nella neve, di piedi che non si fermano. C’è una sequenza di un pasto, tra Sadazō e un suo compagno di vagabondaggio, che si svolge in riva al mare: il pasto è misero e la sua preparazione è quanto di più spartano e antigienico si possa immaginare, eppure nelle immagini di quel rito frugale si ricrea una magia indescrivibile che rende quel momento così perfetto e in grado di esprimere concetti immensi, quali vita, amicizia, umanità. Cosa lascia dopo la visione? Un senso di costrizione, forse. Nel vedere quest’uomo che non ha legami materiali, che cammina libero coniugando la vita solo al presente, ci si sente soffocare, così, forse per un attimo, nelle nostre prigioni dorate, riscaldate e munite di frigorifero.